Foto: Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, San Giovannino Noli me tangere, 1618, olio su tela; Mattia Preti, Ripudio di Agar, 1635-1640 ca., olio su tela; Nicola Malinconico, Il buon Samaritano, 1703-1706 ca., olio su tela; Bernardo Cavallino, Santa Lucia, , 1645-1648 ca., olio su tela.
Dopo la mostra di qualche anno fa dedicata all’Officina Pratese che accese i riflettori sull’arte di Prato facendo riscoprire i suoi tesori che hanno sempre rischiato di essere oscurati da quelli dei potenti vicini, Pistoia e soprattutto Firenze, dopo l’esposizione dell’anno scorso “Legati da una cintola. L’ Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città” che raccontava vicende e iconografia di una leggendaria e preziosissima reliquia mariana sulla quale la comunità pratese ha costruito buona parte della propria fortuna, quest’anno il Museo di Palazzo Pretorio (che nasce nel 1788 con il granduca Pietro Leopoldo di Lorena, diventando pinacoteca civica nel 1858), si apre al collezionismo con una mostra che mette a confronto il pubblico con il privato, l’arte della collezione di Palazzo Pretorio con quella della Collezione De Vito, che annovera alcuni dipinti “mai visti”, tutti realizzati dopo l’esperienza travolgente delle creazioni di Caravaggio. Che rappresenta il discrimine tra un prima e un dopo. Il periodo preso in esame, infatti, si definisce “dopo Caravaggio”, dagli inizi del naturalismo napoletano che in Battistello Caracciolo ha il suo più alto rappresentante alle interpretazioni aggiornate sul Classicismo fino a Mattia Preti, a Luca Giordano, al barocco. La mostra presenta un nucleo di dipinti di artisti che a Napoli furono i primi interpreti del naturalismo caravaggesco e di altri che successivamente furono in grado di rielaborarne il linguaggio in forme più orientate verso il classicismo e il barocco.
Ma non si tratta tuttavia di un’esposizione sulla pittura napoletana del Seicento napoletano, dicono le due curatrici Nadia Bastogi e Rita Iacopino, direttrici scientifiche l’una della Fondazione De Vito, l’altra del Museo di Palazzo Pretorio, piuttosto di mettere a confronto una scelta di opere di uno dei nuclei più importanti dei dipinti del Seicento napoletano in Toscana con quelle della Fondazione De Vito che per qualità e interesse storico è fra le più notevoli del periodo preso in esame.
Tutto si muove a partire dalla presenza di Michelangelo Merisi a Napoli e dal suo rapporto con la città partenopea. Come è noto Caravaggio fu presente due volte, dall’ottobre 1606 al giugno 1607 in fuga da Roma per sottrarsi alla giustizia del papa. Già noto dipinse a Napoli alcuni dei suoi capolavori come le grandi pale d’altare con le “Sette opere di Misericordia” per il Pio Monte, la “Flagellazione” per la Chiesa di San Domenico (ora a Capodimonte), la “Crocifissione di Sant’Andrea” (ora a Cleveland) e altri dipinti per committenti privati. Fra questi le fonti citano due “Salomè con la testa del Battista” che sono state identificate con le versioni di Madrid e di Londra.
Il secondo soggiorno di Caravaggio a Napoli dall’ottobre 1609 al luglio 1610 si situa nel periodo travagliato dopo la fuga da Malta quando, aspettando la grazia, tenta disperatamente di raggiungere Roma. E dipinge opere d’intensa drammaticità, di forte luminismo come il “Martirio di Sant’Orsola” (ora a Palazzo Zavallos Stigliano), tre pale andate perdute per la Cappella Fenaroli con la “Resurrezione”, “San Francesco riceve le stimmate”, “San Giovanni Battista”, la “Maddalena in estasi”, nota solo per le copie e il famoso “San Giovanni Battista” della Galleria Borghese.
Opere straordinarie, rivoluzionarie quelle dipinte a Napoli da Caravaggio che vennero viste, studiate, ammirate, copiate, rielaborate dagli artisti partenopei. Dai caravaggeschi della prima ora come Battistello Caracciolo e da altri successivamente. Ma per l’affermarsi di un forte e duraturo linguaggio artistico d’impianto naturalistico fu essenziale anche la presenza a Napoli dal 1616 dello spagnolo Jusepe de Ribera.
La Collezione di Palazzo Pretorio che raccoglie beni di chiese, conventi, istituzioni e privati, conserva anche un nucleo seicentesco di scuola napoletana. E’ con l’eredità di monsignor Giuseppe Vaj che nel 1799 furono trasferiti da Roma a Prato i dipinti “Ripudio di Agar” di Mattia Preti e “Il gregge di Labano” considerato una copia da Jusepe de Ribera che fino ad oggi costituivano per la loro origine due veri e propri enigmi tra le opere del museo pratese, scrive in catalogo Rita Iacopino. Ma già prima a metà del Seicento la quadreria del nobile e ricco Vaio di Baccio faceva conoscere in città la cultura figurativa post caravaggesca in gran parte legata alla committenza Barberini dovuta alla presenza a Roma di Simone di Baccio (1593-1626) che fu tesoriere del cardinale Francesco Barberini. Un rapporto stretto con la corte papale di Urbano VIII e di Innocenzo X e con il mecenatismo romano e la cerchia degli artisti del periodo ebbe anche il fratello Vaio di Baccio che fu segretario di Taddeo Barberini, nipote di Urbano VIII. La quadreria che giunse a Prato nel palazzo di famiglia non rispecchiava dunque i gusti della corte dei Medici, ma era orientata a Roma e guardava gli esiti del naturalismo caravaggesco.
Altra quadreria importante giunta integra alla fine dell’Ottocento al Museo pratese è la “Galleria Martini” 130 dipinti dei generi più vari che documentano una “pronta adesione ad una sconvolgente sensibilità” della committenza pratese attenta agli aggiornamenti della pittura contemporanea testimoniata da dipinti di discendenza caravaggesca come il “Buon Samaritano” di Nicola Malinconico.
Diversa ovviamente la storia della della collezione “laboratorio” del Seicento napoletano dell’imprenditore Giuseppe de Vito, un appassionato mecenate scomparso giusto cinque anni fa. Un “ingegnere prestato alla storia dell’arte”, come lui stesso amava scherzosamente definirsi, non un dilettante, ma uno studioso che individuato un preciso campo di azione, con metodo, rigore e mezzi economici adeguati lo indaga per curiosità intellettuale ma con approccio scientifico. A lui si deve la fondazione nel 1982 del periodico “Ricerche sul ‘600 napoletano” che ha diretto fino alla morte e oltre settanta scritti usciti fra il 1974 e il 2013 su diversi argomenti riguardanti il Seicento napoletano con particolare attenzione al genere della natura morta. La sua collezione privata, conservata a Vaglia, è formata da 64 dipinti di artisti del secolo d’oro della pittura partenopea in un arco temporale che va da Giovanni Battista Caracciolo, detto Battistello Caracciolo, artista capostipite del naturalismo caravaggesco napoletano, a Luca Giordano. Il “San Giovannino” di Battistello pubblicato da Roberto Longhi nel ’57, fu acquistato nel ’72 dalla collezione dell’architetto romano Andrea Busiri Vici. La collezione annovera firme come Jusepe de Ribera, il Maestro dell’Annuncio ai pastori, Francesco Fracanzano, Massimo Stanzione, Bernardo Cavallino, Mattia Preti insieme a specialisti nei generi di battaglia come Aniello Falcone, di natura morta come Luca Forte, Paolo Porpora. La scelta di De Vito è legata alla qualità delle opere appartenenti soprattutto al filone del naturalismo di origine caravaggesca. La collezione appare una sorta di laboratorio, di “work in progress”. Il piacere della scoperta si accompagna per De Vito allo studio e alla riflessione al fine di ricostruire tessera dopo tessera il mosaico della scena artistica napoletana, ricorda in catalogo Nadia Bastogi.
Una ventina le opere della mostra “Dopo Caravaggio. Il Seicento napoletano nelle collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito” aperta fino al 13 aprile, che si snodano secondo una sequenza cronologica articolata in quattro nuclei che consentono richiami tematici e corrispondenze. Fulminante l’incipit con due capolavori di Battistello (1578 – 1635) che fu in contatto diretto con Caravaggio a Napoli. “Noli me tangere”, pezzo forte di Palazzo Pretorio, già collocato nelle stanze dello Spedale Misericordia e Dolce di Prato, è giunto nelle collezioni del Museo nel 1933 e secondo la critica sarebbe stato dipinto a Firenze verso il 1618. Il dipinto prende spunto dal brano evangelico secondo cui Maria di Magdala recatasi al sepolcro con in mano il vaso degli unguenti trova il sepolcro vuoto. L’uomo che incontra non è il custode del giardino ma il Maestro che pronuncia la famosa frase. Battistello come in un fermo immagine blocca la scena inquadrandola dal basso e caricandola di forte intensità nel contrasto di luci e ombre. A confronto altri due quadri straordinari della Collezione De Vito, il ”San Giovannino”, dal volto tenero e vivace che riprende in modo originale un soggetto più volte trattato da Caravaggio. Un recente restauro gli ha restituito la luminosa cromia alterata da vecchie dipinture. Di Massimo Stanzione “San Giovanni Battista nel deserto” raffigurato come un giovane seminudo seduto su una roccia con l’agnello al fianco, in un paesaggio desolato. Una rappresentazione che si rifà chiaramente alle diverse interpretazioni date da Caravaggio ma in forme eleganti, con un luminismo meno contrastato.
Il secondo nucleo fa perno su Jusepe de Ribera attivo a Napoli fra il 1616 e il 1652 di cui sono in mostra figure di santi, di filosofi e figure allegoriche dei cinque sensi e il Maestro dell’annuncio ai Pastori, un artista della cerchia del pittore spagnolo. Dalla Fondazione De Vito vengono il “Sant’Antonio Abate” di Ribera datato 1638 e “Giovane che odora una rosa” (1635 – 1640) del Maestro dell’Annuncio ai pastori scelto come copertina del bel catalogo Claudio Martini Editore.
Fa parte della collezione di Palazzo Pretorio, ma era conservato nei depositi e ritenuto finora non restaurabile “Giacobbe e il gregge di Labano” post 1632 di Ribera. In mostra, in attesa del restauro ad opera dell’Opificio delle Pietre Dure che lo restituirà alla città, una presenza virtuale con un video e una scheda informativa.
Museo di Palazzo Pretorio Piazza del Comune Prato. Orario: !0,30 – 18,30 tutti i giorni eccetto il martedì non festivo. Fino al 13 aprile. Informazioni: tel. 0574-24112 www.palazzopretorio.prato.it