Foto: 1) Antonio Canova Amore e Psiche stantiGesso, 148x68x65 cm, Foto di Andrea Parisi; 2) Antonio D’Este Busto di Antonio Canova, 1832 Marmo, 50,5x23x21 cm, Musei Vaticani Archivio Fotografico Musei Vaticani; 3) Anonio Canova Maddalena penitente Marmo, 95x70x77 cm The State Hermitage Museum, San Pietroburgo © Mimmo Jodice; 4) Anonio Canova Paride Marmo, 200x79,5x64,5 cm Asolo, Museo Civico, © Mimmo Jodice
C’è chi lo nega, chi pensa sia possibile ma lontano mille miglia dalla sensibilità di oggi tutta volta alla realtà virtuale, alla fotografia e quindi improbabile. Certo è che si assiste a un ritorno di fiamma della sensibilità neoclassica, a un’attenzione particolare alla creatività che si esprime nel periodo fra Settecento e Ottocento. I segni di questo risveglio non mancano. Prima al Museo Nazionale Archeologico di Napoli la mostra su Canova, poi alla Galleria Borghese quella su Luigi Valadier, quindi di nuovo a Roma a Palazzo Braschi Canova visto in relazione alla città di papi, infine è di questi giorni a Milano alle Gallerie d’Italia il confronto serrato fra i due maestri che riscrissero l’antico, Canova e Thorvaldsen.
La mostra romana, aperta fino al 15 marzo negli spazi di Palazzo Braschi, curata da Giuseppe Pavanello, uno dei più attenti studiosi dell’artista, presenta oltre 170 opere, alcuni marmi, molti gessi, disegni e progetti originali, capolavori antichi e dipinti a cominciare dal suo “Autoritratto” conservato nel Museo di Roma e opere di pittori e intellettuali contemporanei a lui vicini come Giacomo Quarenghi, Mengs, Batoni, Gavin Hamilton , von Maron, Felice Giani. Sono distribuite in 13 sezioni, grazie a prestiti di grandi istituzioni come i Musei Vaticani, il Museo Correr di Venezia, il Musée des Augustins di Tolosa, la Gypsoteca e Museo Antonio Canova di Possagno, il museo Nazionale Archeologico di Napoli, il Museo Civico di Bassano, l’Accademia di San Luca. Viene da Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Tursi la “Maddalena penitente” (1796) con la santa in lacrime accovacciata a terra. E’ uno dei pochi marmi canoviani a soggetto religioso destinato inizialmente al conte bassanese Tiberio Roberti, poi acquistata per mille zecchini romani da un francese “il cittadino” Jullot e venduta a Giambattista Sommariva che la portò a Parigi per finire dopo vari passaggi a Genova.
In mostra marmi antichi e moderni a confronto. L’”Eros Farnese” del MAN di Napoli è posto in relazione con l’”Amorino alato” proveniente dall’Ermitage. E’ uno dei quattro che l’artista scolpisce nella su lunga carriera. Il primo si trova in Polonia, gli altri due per committenti britannici. La statua di Amore, un giovane nudo, bellissimo, in piedi deriva da un unico modello, forse una statua antica. All’Ermitage si deve anche il prestito della “Testa di genio funebre” del 1790, parte del monumento funebre di Clemente XIII. E della “Danzatrice con le mani sui fianchi”, un marmo di sublime bellezza, commissionato all’artista da Giuseppina Beauharnais per la sua Malmaison (1806-1812) clou della rassegna. La danzatrice è Illuminata mentre tutto attorno è in penombra, è al centro di una grande sala su una pedana mobile e si muove lentamente al suono della musica. E’ l’aspetto spettacolare di un’esposizione che fa uso di specchi, di illuminazioni particolari, di giochi prospettici, presentando alcune opere in modo simile a quello dall’artista. Che le mostrava in forma scenografica nel proprio atelier al lume delle torce.
La mostra di Palazzo Braschi pone l’accento sul rapporto dell’artista con Roma in cui arriva giovanissimo da Venezia nel novembre del 1779 a ventidue anni. Dopo un soggiorno a Napoli e un breve periodo trascorso a Venezia per finire la statua del marchese Poleni per il Prato della Valle a Padova e per provvedere a chiudere il proprio studio ritorna a Roma dove risiederà stabilmente dal 1781 alla morte avvenuta nel 1822. “Senza paragoni il rapporto di Canova con Roma. Irrefrenabile sin dalla prima giovinezza il desiderio di recarsi nell’Urbe per conoscere dal vivo i capolavori della statuaria classica”, scrive in catalogo (Silvana Editoriale) il professor Pavanello. Tanto da spendere i cento zecchini guadagnati con il gruppo “Dedalo e Icaro” per il viaggio a Roma, quindi comincia a darsi da fare per ottenere una pensione dal Senato veneto per proseguire gli studi di scultura antica in quello che era da tutti riconosciuto come il centro delle arti in Europa. Appena giunto l’entusiasmo è alle stelle, come ricorda l’architetto veneziano Giannantonio Selva che lo accompagna il primo giorno a visitare il Belvedere. “Giunto colà fu tanto rapito da quegli eccellenti originali, che sembrava quasi pazzo a chi non lo conosceva; si fermava all’”Apollo”, correva al “Laocoonte”, e così di mano in mano alle altre statue, pareva che in un momento succhiar volesse quelle bellezze che il suo fino occhio scopriva”. Erano gli originali, non le copie in gesso che aveva visto nella galleria di palazzo Farsetti a Venezia. E di “quegli eccellenti originali” si rifiuta di fare copie come facevano tanti suoi colleghi. E’ affascinato dall’”Apollo e Dafne” di Bernini, non gli sfuggono i “famosi arazzi di Raffaello” e studia i marmi antichi di cui registra le misure. Con l’arrivo di Canova Roma si conferma centro dell’arte moderna che intende gareggiare con l’arte antica. Non copiare l’antico ma far rinascere l’antico nel moderno e plasmare il moderno attraverso il filtro dell’antico. L’antico bisognava “mandarselo nel sangue – diceva - sino a farlo diventare naturale come la vita stessa”. Per questo l’artista si può considerare l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni. Canova considera un lavoro indegno di un creatore fare copie di pezzi antichi, lui che non ha mai restaurato una scultura classica, intoccabile per definizione.
Su Canova che avrà risonanza internazionale a soli ventisei anni con il “Monumento sepolcrale di Clemente XIV ai Santi Apostoli”, per proseguire poi richiestissimo dalle corti e dai più importanti esponenti dell’aristocrazia europea, nella mostra vengono proposti numerosi spunti di riflessione. Dagli studi dei “Colossi” di Monte Cavallo, evocati da due antichi calchi in gesso delle teste, al rapporto fra antico e moderno, al confronto fra classico e neoclassicismo rievocato accostando i gessi di celebri capolavori antichi come l’Apollo del Belvedere e il Gladiatore Borghese con il “Perseo trionfante” e il ”Pugilatore Creugante” dello stesso Canova. In mostra alcune copie di sculture inamovibili come la “Paolina” della Galleria Borghese e l’”Ercole e Lica” della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Ai monumentali marmi si aggiungono, provenienti dalla Gypsoteca di Possagno, i delicatissimi grandi gessi che tanta importanza hanno nell’iter creativo del Maestro.
La mostra mette a fuoco anche altri aspetti di Canova, non solo artista di successo internazionale, ma custode dell’antico e del bello, al centro della vita culturale della città e difensore strenuo del patrimonio artistico. In un tempo in cui il mercato dell’arte stava assumendo una dimensione incontrollabile, si faceva strada il concetto che il patrimonio artistico era un bene pubblico irripetibile, da conservare e difendere. All’abate Carlo Fea, al camerlengo Bartolomeo Pacca e a in particolare a Canova, come ricorda in catalogo Orietta Rossi Pinelli, si deve la promozione della tutela del patrimonio artistico pontificio. Canova, fieramente antigiacobino che aveva abbandonato Roma all’epoca della Repubblica rifugiandosi nella natia Possagno, nel 1802 viene nominato ispettore generale delle Belle Arti dello Stato della Chiesa. Belle arti che “ nate in Grecia” avevano fissato da tanti secoli il loro” unico domicilio a Roma”. Un incarico che rivestì anche durante la seconda dominazione francese a Roma (1809-1914), e nell’epoca della Restaurazione quando ebbe il compito di riportare a casa le opere sottratte dai francesi alla Fine del Settecento come bottino di guerra. Un’operazione di alta diplomazia internazionale coronata da successo (anche se non tutte tornarono) grazie anche all’aiuto economico della Gran Bretagna.
Fra i focus della rassegna la visita al suo organizzatissimo studio in via delle Colonnette di San Giacomo degli Incurabili, tappa irrinunciabile dei viaggiatori del Grand Tour. Vi si trasferisce nel 1783, dovendo lasciare quello di Palazzo Venezia, sede dell’ambasciata della Serenissima, concessogli dall’ambasciatore Zulian. Canova, per non affaticarsi inutilmente e perdere tempo, lascia ai numerosi aiutanti del suo studio l’esecuzione della parte più grezza del lavoro, verificando la qualità dei risultati e intervenendo alla fine. Si passa dal bozzetto in creta che fissava la prima intuizione, preceduta da disegni e dipinti, ai modellini in gesso e creta, fissando i punti chiave. I lavoranti sbozzavano il marmo, Canova dava l’ultima mano, gli ultimi tocchi a lume di candela. Secondo quanto diceva Winkelmann “Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma”. Un modo di lavorare seguendo un metodo applicato fin dal tempo del Monumento di Clemente XIV.
Infine le immagini del presente negli scatti di Mimmo Jodice. Il primo contatto del fotografo con i marmi levigati e perfetti di Canova risale al 1992 quando inizia la sua campagna fotografica dedicata all’artista girando nei maggiori musei del mondo. “Fotografare una scultura - ha scritto - richiede un approccio completamente diverso da quello utilizzato per un quadro. L’interesse di Jodice va al volume, al rapporto fra ombra e luce, pieni e vuoti. “ Parte da un rapporto diretto, quasi corporale con le opere”, precisa in catalogo Alessandra Mauro. Gira intorno alle sculture, le esplora con una torcia, ne percorre le superfici rendendole palpabili, vive.
Palazzo Braschi, Piazza San Pantaleo, 10 – Roma. Orario: 10.00 – 19.00, lunedì chiuso. Fino al 15 marzo 2020. Informazioni: www.museidiroma.it w tel. 060608