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  •  07/06/2021
Federico Maria Santilli

I marmi delle tombe medicee realizzate da Michelangelo nella Sagrestia Nuova della Basilica di San Lorenzo a Firenze sono tornati a splendere grazie a dei batteri in grado di mangiare la sporcizia. Un intervento assolutamente non aggressivo che ha permesso di rimuovere alcune macchie profonde senza intaccare la struttura delle opere. Il merito di questo risultato, che completa un programma di restauro avviato 8 anni fa, va ai ricercatori dell'ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile) e del CNR di Firenze, i quali hanno lavorato insieme ai restauratori per un anno e mezzo, a partire dallo scoppio della pandemia di Covid-19.

I danni di maggior entità sono stati rilevati sul sarcofago di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino. Nel 1537 le spoglie di Alessandro de’ Medici vennero collocate in questo stesso sarcofago, ma senza essere prima sottoposte a eviscerazione e imbalsamazione. Le sostanze derivanti dalla decomposizione hanno perciò compenetrato il marmo fino alla parte esterna, creando in superficie delle macchie di colore scuro. Dopo che gli esperti del CNR hanno accertato la natura delle macchie, il gruppo di ricerca di biotecnologie microbiche dell'ENEA ha scelto e poi allevato in laboratorio i microrganismi idonei a condurre un'operazione di biopulitura. Tutti i residui organici sono così stati divorati con successo da un batterio chiamato “Serratia ficaria SH7”, senza danneggiamenti o alterazioni.

“Diversi tipi di restauro utilizzano prodotti spesso tossici per gli operatori e aggressivi, che rimuovono i depositi coerenti ma che finiscono anche per alterare la patina originale delle opere”, ha spiegato a Mashable Italia Anna Rosa Sprocati, ricercatrice dell'ENEA. “Nel caso delle tombe della Cappella Medicea abbiamo usato ceppi batterici scelti (naturali, non patogeni), in grado di rimuovere le macchie in modo selettivo”.

L'operazione, che oltre ad Anna Rosa Sprocati e alla sua collega Chiara Alisi ha visto protagoniste anche le restauratrici Marina Vincenti e Daniela Manna e la direttrice dei lavori di restauro Monica Bietti, è rimasta riservata fino all'ultimo, come riporta il New York Times. “Si è trattata di una scelta ponderata dei restauratori, non è dipesa dai ricercatori. Probabilmente perché quando si adoperano tecniche di restauro innovative, o comunque non di prassi, c’è sempre una certa cautela. Si temono controindicazioni e si preferisce non fare troppo chiasso prima dei risultati”, ha ammesso la Sprocati.

Non è la prima volta che vengono utilizzati dei batteri per degli interventi di restauro e conservazione di beni culturali. Una delle prime biopuliture è stata eseguita nel 2013, sempre con il supporto dell'ENEA, sui dipinti murali della Casina Farnese nel sito archeologico del Colle Palatino a Roma. Nel 2018, invece, un gruppo interdisciplinare di ricerca, guidato dalla microbiologa dell'Università di Ferrara Elisabetta Caselli, ha individuato tre ceppi di batteri “buoni” in grado di inibire l'azione di danneggiamento messa in atto da dei batteri “nocivi” sul dipinto “L'Incoronazione della Vergine”, realizzato dal pittore Carlo Bononi all'inizio del Seicento. Sempre nel 2018, infine, Giancarlo Ranalli, professore ordinario di Microbiologia Agraria dell'Università del Molise, ha utilizzato dei batteri per rimuovere dagli affreschi che decorano la cupola del Duomo di Pisa i residui lasciati dai precedenti interventi di restauro.


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